ASK ME NO MORE – ALMA TADEMA (1836-1912)


ASK ME NO MORE

ALMA TADEMA

Aesthetic Movemen

In ogni quadro di ogni artista al centro c’è sempre la donna: muse o modelle, femmes fatales, eroine d’amore, streghe, incantatrici, principesse; l’essere angelicato che può diventare demonio, la salvezza che può diventare tentazione. Perché la donna è soggetto principale dell’Aesthetic Movement. Nelle opere di questi artisti il corpo femminile non è più prigioniero come nella vita quotidiana, bensì denudato, e simboleggia una forma di voluttà. Le donne sono tutte eroine dell’Antichità e del Medio Evo; natura lussureggiante e palazzi sontuosi fanno da sfondo a queste figure sublimi, lascive, sensuali.

Un contesto non immaginato né studiato sui classici perché i pittori viaggiano in Italia, in Grecia e in Oriente e si impegnano a restituire con precisione l’architettura dei templi egiziani, dei paesaggi greci e dei bassorilievi persiani, per farne la cornice di episodi storici celebri in un ambiente di vita quotidiana reinventato. Spesso i loro viaggi erano finanziati dai mecenati, come nel caso dell’ingegnere e deputato tory John Aird che comprò “Le rose di Eliogabalo” ad Alma Tadema e ne fu così soddisfatto da invitarlo con lui in un viaggio in Egitto.
http://chiostrodelbramante.it/info/alma_tadema/#.UxI0cPl5OSo

“If no one ever marries me”

BY LAURENCE ALMA-TADEMA
If no one ever marries me,—
And I don’t see why they should,
For nurse says I’m not pretty,
And I’m seldom very good—
If no one ever marries me
I shan’t mind very much;
I shall buy a squirrel in a cage,
And a little rabbit-hutch:
I shall have a cottage near a wood,
And a pony all my own,
And a little lamb quite clean and tame,
That I can take to town:
And when I’m getting really old,—
At twenty-eight or nine—
I shall buy a little orphan-girl
And bring her up as mine.

John Maler Collier “Lady Godiva”


La bellezza regna sul mondo come una promessa di verità!

L’eterno femminile che ha ragione delle cose del mondo, che genera la vita, l’amministra, la governa, si può comandare anche con una carezza!

La leggenda

Secondo la tradizione popolare, la bella Lady Godiva prese le parti della popolazione di Coventry, che stava soffrendo per le tasse oppressive imposte da suo marito. Lady Godiva gli chiese più volte di toglierle, ma il marito rifiutò sempre.
Stanco delle sue suppliche, le disse che avrebbe dato ascolto alla sua richiesta solo se avesse cavalcato nuda nelle vie della città. Lady Godiva lo prese alla lettera e, dopo la pubblicazione del proclama dove si raccomandava a tutte le persone di mantenere chiuse porte e finestre, cavalcò in Coventry, coperta soltanto dai suoi lunghi capelli.
Soltanto una persona nella città, un sarto poi conosciuto come Peeping Tom, disobbedì al proclama.[8] Nella storia, Tom fece un foro in una persiana per poter vedere il passaggio di Godiva e rimase cieco. Alla fine, il marito di Godiva mantenne la sua parola e abolì le tasse onerose.[7]

Lady Godiva di Edmund Blair Leighton(1892)

Una versione ancora più antica della leggendaracconta che Godiva attraversò il mercato di Coventry da un’estremità all’altra, mentre la gente era riunita, scortata solo da due cavalieri.[9] Questa versione è fornita nella Flores Historiarum da Roger di Wendover, un collezionista di aneddoti (morto nel1236).

La storia successiva, quella con il relativo episodio che riguarda Peeping Tom, comparve per la prima volta nelle cronache attorno al XVII secolo. A quel tempo, i penitenti erano soliti fare una processione pubblica soltanto con un piccolo indumento bianco simile a un odierno slip, che era certamente considerato biancheria intima. Quindi, alcuni studiosi ipotizzano che Godiva abbia realmente attraversato la città, come una penitente. La storia di Godiva passò poi nel folklore popolare e venne romanzata.

C’è anche un’altra teoria secondo cui la “nudità” di Lady Godiva potrebbe invece riferirsi al fatto che cavalcò per le strade senza i suoi gioielli, segno distintivo della sua appartenenza alla nobiltà. Resta comunque forte il dubbio se la famosa cavalcata sia un fatto storicamente accaduto.

Come la storia di Peeping Tom, anche il particolare che solo i lunghi capelli di Godiva avessero nascosto la sua nudità sarebbe un’aggiunta successiva (confrontare la fiaba di Raperonzolo). Anche altri elementi della storia hanno alcuni elementi in comune con il mito, la leggenda e le fiabe. Ad esempio, la storia di Peeping Tom che diventa cieco richiama i motivi del mistero violato e della punizione dell’intruso presenti in miti come quello di Diana e Atteone.

Lady Godiva

http://it.wikipedia.org/wiki/Lady_Godiva

http://www.francescodallera.it/lady%20godiva.htm

I Preraffaelliti

http://it.wikipedia.org/wiki/Preraffaelliti

L’Atlantide di Benoit


Si può costringere solo chi vuole essere costretto

Poster (litografia) di Manuel Orazi del film francese L’Atlantide del 1921 di Jacques Feyder tratto dal romanzo di Benoit. Con Stacia Napierkowska (la regina Antinea)

http://it.wikipedia.org/wiki/L%27Atlantide_(romanzo)

 […]Fantasie, forse; immaginazioni di un cervello eccitato e di un occhio turbato dai miraggi. Di certo un giorno rileggerò queste pagine con un sorriso di imbarazzata pietà, il sorriso del cinquantenne che rilegge vecchie lettere d’amore. Fantasie, immaginazioni. Ma queste fantasie, queste immaginazioni mi sono care. […] pag.12 LETTERA PRELIMINARE

[…] Per tutto il tempo che durò il diluvio, uno, due ore forse, Morhange e io restammo, senza dire una parola, chini su quella fantastica inondazione, ansiosi di vedere, di vedere sempre, di vedere ad ogni costo, compiacendoci, con una specie di ineffabile orrore, nel sentir oscillare sotto i colpi d’ariete dell’acqua lo zoccolo di basalto sul quale ci eravamo rifugiati. Credo che neppure per un momento, tant’era bello, desiderammo la fine di quel grandioso incubo.[…]pag.55 L’ISCRIZIONE

[…]Mi fregai gli occhi, volsi attorno lo sguardo e subito afferrai la mano del mio compagno. “Morhange”, supplicai, “ditemi che stiamo sognando.” Ci trovammo in una sala rotonda, con un diametro di circa cinquanta piedi, alta quasi altrettanto, illuminata da un immensa finestra, aperta su un cielo azzurro cupo. Le rondini passavano e ripassavano con strida rapide e gioiose. Il pavimento, le pareti e la volta erano d’una specie di marmo venato simile al porfido, rivestiti di piastre d’uno strano metallo, più pallido dell’oro, più scuro dell’argento, su cui passavano in quel momento i vapori dell’aria mattutina che entrava a profusione dalla finestra spalancata. Mi diressi barcollando verso la finestra, attratto dalla frescura dell’aria, dalla luce dissolvitrice dei sogni, e appoggiai i gomiti alla balaustra senza poter trattenere un grido di ammirazione. Mi trovavo su una specie di verone, tagliato nel fianco d’una montagna, a strapiombo sul vuoto. Sopra di me, l’azzurro; sotto, circondato da ogni parte da picchi che formavano una cerchia ininterrotta e inviolabile, mi appariva un vero e proprio paradiso terrestre, un giardino in cui i palmizi dondolavano mollemente le loro grandi foglie, e ai cui piedi crescevano tutti i piccoli alberi che essi proteggono nelle oasi: mandorli, cedri, aranci, e altri, molti altri, di cui da quell’altezza non discernevo la specie…Un ampio ruscello azzurro, alimentato da una cascata, sfociava in un incantevole lago, alle cui acque l’altitudine dava una meravigliosa trasparenza. Grandi uccelli volavano in circolo in quel pozzo verdeggiante; sul lago spiccava la macchia rossa di un fenicottero. Quanto alle montagne che levavano tutt’attorno le loro alte cime, esse erano tutte coperte di neve. Il ruscello azzurro, le verdi palme, i frutti d’oro e per di più quella neve miracolosa, tutto, in quell’aria che pareva immateriale tant’era fluida, tutto concorreva a formare qualche cosa di così puro, di così bello, che la mia povera forza d’uomo non potè più a lungo sopportarne la vista. Appoggiai la fronte sulla balaustra, ovattata anch’essa di quella neve divina, e mi misi a piangere come un bambino.[…]pag.79 IL RISVEGLIO NELL’HOGGAR                                     

Maledetto per sempre il vano sognatore,

Che volle per il primo, preda a stupidità,

Facendo suo un assurdo e sterile problema,

Alla cose d’amore mescola l’onestà.

Baudelaire, pag. 119

[…]Non parlate finché non l’abbiate veduta. Da quel momento per lei rinnegherete tutto.[…]Onta a colui che svela il segreto dei suoi amori![…]Queste cose le racconto per me stessa, per non scordare. […]

Pierre Benoit “L’Atlantide” Sonzogno 1974

.......................

Zeus non potrebbe sciogliere le reti

di pietra che mi stringono. Ho scordato

gli uomini che fui; seguo l’odiato

sentiero di monotone pareti

ch’è il mio destino. Dritte gallerie

che si curvano in circoli segreti,

passati che sian gli anni. Parapetti

in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe.

Nella pallida polvere decifro

orme temute. L’aria m’ha recato

nei concavi crepuscoli un bramito

o l’eco d’un bramito desolato.

Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte

è stancare le lunghe solitudini

che intessono e disfano questo Ade

e bramare il mio sangue, la mia morte.

Ciascuno cerca l’altro. Fosse almeno

questo ultimo giorno dell’attesa.

………..

Non ci sarà sortita. Tu sei dentro.

e la fortezza è pari all’universo

dove non è diritto né rovescio

né muro esterno né segreto centro.

non sperare che l’aspro tuo cammino

che ciecamente si biforca in due,

che ciecamente si biforca in due,

abbia fine. E’ di ferro il tuo destino,

così il giudice. Non attender l’urto

del toro umano la cui strana forma

plurima colma d’orrore il groviglio

dell’infinita pietra che si intreccia.

Non esiste. Non aspettarti nulla.

Neanche nel nero annotare la fiera.

Il Labirinto pag. 37, Il Labirinto pag. 39 da Elogio dell’Ombra 1971 Jorge Luis Borges …ad ogni contatto con il labirinto borgesiano, sentiamo l’imminenza di una rivelazione…per poi perderla e ritrovarla….

Dissacratorio, Simbolico, Culto delle Vestali: il Fuoco – La Vita Interiore di Alberto Moravia


Da: La Vita Interiore di Alberto Moravia
Dialogo tra il mio Io e la mia Voce: 
Io: Che cos’è il Desiderio? 
Voce: Sono proprio io, Voce, il Desiderio, sono il linguaggio dell’Inconscio, sono la mancanza…Quello che non potrai mai possedere…. 
Ho tentato, attraverso gli anni, varie volte di leggere questo libro, e non ho mai mancato di interromperne bruscamente la lettura. C’erano sempre validissimi motivi per farlo, voci di rinuncia. Ora l’ho letto tutto d’un fiato, quasi in apnea, mi sono concessa questo amplesso di lettura, me lo meritavo, probabilmente; con dedica. 
Lo trovo illuminante e mai volgare e nemmeno forzatamente irriverente, offensivo, come per il gusto del tempo, figlio del momento storico nel quale è circoscritto, carico di speme per i lunghi sette anni di gestazione. Non ne vedo la natura propriamente eversiva, ne la matrice di incitamento rivoluzionario, continuo fervore dissacratorio che indubbiamente si insinua in tutte le pagine, come un profumo che lascia la sua traccia continua delicata e seduttiva. Un libro di “Atti di Adorazione”, un testo “estetico”, un operazione simbolica, un fuoco, il mito di Danae che si allontana, la devozione per L’origine del mondo di Courbet, i fotogrammi rubati di Tanizaki e tanto altro.
“Secondo Lacan sul piano simbolico, dove s’inscrive la dinamica della coazione a ripetere, della memoria e del passaggio al linguaggio, avrebbe luogo una costante dialettica tra bisogno e desiderio che, ripetendo allucinatoriamente l’esperienza passata, ritrova l’oggetto perduto sul piano fantasmatico e ricerca una realizzazione. 
La dinamica del desiderio è guidata dalla “logica della mancanza” che si manifesta sia in modo negativo sul registro del “reale” (come compromesso nel sintomo) sia in modo positivo sul “registro” immaginario (per esempio nel sogno). 
Lacan colse dietro il “registro” dell’immaginario il sottostante “registro” del simbolico, dominato dal linguaggio e nel quale si svolge la dialettica fondamentale della “domanda”, ossia della richiesta rivolta all’Altro. 
Mentre il bisogno necessita di un oggetto della natura, la domanda è sempre rivolta all’Altro da noi che riconferma noi, l’Altro è il Soggetto. La domanda, dunque, esige il riconoscimento dell’Altro e il desiderio, dominato dalla logica della mancanza, nasce dallo scarto tra bisogno e domanda. 
La scoperta del registro simbolico dimostra per Lacan che la dinamica pulsionale dell’inconscio segue leggi di tipo strutturale simili a quelle poste in evidenza da F. de Saussure per la linguistica e da C. Lévi-Strauss per l’antropologia.”
Il sacrilegio: “La Voce voleva che agissi, non che prendessi coscienza. Secondo lei, la coscienza non doveva venire prima dell’azione, ma dopo.” pag. 135
[…] 
Io: Cosa hai capito? 
Desideria: Ho capito che lui gemeva come chi si trova esposto al freddo, alla paura, allo sconforto e alla solitudine e bussa ad una porta e non gli viene aperto. Lui voleva penetrare dentro di me, non già alla maniera dell’amante, ma come penetrerebbe o meglio rientrerebbe, se questo fosse possibile, un infante appena nato che si rifiutasse di vivere e volesse tornare di nuovo dentro il ventre materno e regredirvi a ritroso, per tutta la serie di trasformazioni attraverso le quali è passato prima di nascere, fino a ridiventare embrione, germe, nulla. Come ho già detto questo significato mi è balenato quando, dopo aver urtato con la fronte contro il mio pube, proprio come chi bussa, frenetico, contro una porta che rimane chiusa, ha cominciato a gemere. Infatti non era davvero un gemito di piacere, sia pure indiretto e mediato ma un lamento di funebre nostalgia, di struggente aspirazione. 
Io: Nostalgia, aspirazione a che cosa? 
Desideria: Nostalgia del tempo in cui non era stato ancora espulso dal ventre materno, aspirazione a rientrarvi. 
[…] Lui sapeva benissimo che era impossibile regredire al nulla prenatale; ma ho sentito con precisione che, pur essendo consapevole di questa impossibilità, nutriva la folle speranza che il miracolo d’improvviso sarebbe avvenuto: improvvisamente il mio sesso si sarebbe aperto abbastanza per permettergli di introdursi nel mio ventre e lui vi avrebbe fatto a ritroso, per trasformazioni successive, verso il buio e il nulla, lo stesso cammino che aveva seguito per venire alla luce. 
Io: Un’interpretazione insolita dell’amore orale. 
Desideria: Un’interpretazione confermata da quello che succede adesso. […] 
Pagg. 224, 225
[…] la Zambrano elabora un antropologia secondo la quale l’uomo possiede una chiara coscienza della propria finitezza, che alimenta in lui nostalgia e speranza a un tempo: è per questo che il futuro dell’uomo (la speranza) coincide con una sua rinascita (la nostalgia), realtà, queste, che hanno la loro sede naturale nel cuore di ciascun essere umano. Afferma a questo proposito ancora Maria Teresa Russo: “di fronte al ‘cogito’, cifra dell’umanesimo cartesiano, Zambrano oppone il cuore, categoria dichiaratamente agostiniana. Proprio a sant’Agostino la pensatrice si riconduce esplicitamente, quando tratta della necessità che il cuore si ricomponga, che riconquisti la perduta armonia con la ragione. È un cuore – prosegue la Russo – che ha bisogno, contemporaneamente di ritrovarsi nella confessione e di esprimersi nella compassione”. Non casualmente la Zambrano ha dedicato uno dei suoi scritti più notevoli proprio al tema della confessione, intesa come possibilità di ricostruire la propria identità attraverso il raccontarsi a un interlocutore privilegiato: a questo riguardo si possono leggere cose molto interessanti nel volumetto Antigone e il sapere femminile dell’anima, curato da Maria Inversi per le Edizioni Lavoro, nel quale si trova questa bella suggestione: “la confessione – secondo Zambrano – è dunque un metodo per trovare questo chi, il soggetto a cui accadono le cose, e in quanto soggetto, colui che resta al di sopra, libero da quanto gli accade” […]
“Si dimenticherà sempre la lacerazione e il patimento dell’Aurora, il suo parto, se non si tiene conto della Notte, se la si vede unicamente come l’annuncio del giorno” 
“Sono i sogni che presiedono il destino, che lo contengono dichiarandolo e celandolo al tempo stesso. E che sono al di là del desiderio e della speranza.” – Pag.88 
e ancora da http://www.anobii.com/marinaf/books: (grazie perché mi hai preso per mano) 
“Come se avessimo dormito, qualcosa del sogno sopravvive in noi, e il sole ha un torpore che riscalda la superficie immobile dei sensi. E’ un’ubriachezza di non esser niente, e la volontà è un secchio che viene rovesciato nel cortile da un movimento indolente di un piede che passa…..(…..)” 21-4-1930 Fernando Pessoa
Critica Letteraria su Moravia:
La tragedia di Antigone, tra natura e cultura

Speranza di Raffaella Terribile


Gustav Klimt

Die Hoffnung I, II
(1903, 1907)
La presentazione al pubblico di Speranza I avvenne in occasione della Kunstschau del 1909, a sei anni dalla sua realizzazione: la Vienna benpensante avrebbe difficilmente accettato un soggetto così scabroso, e questa considerazione dissuase l’artista dall’esporre l’opera alla sua mostra personale organizzata nel 1903 dalla Secessione, una prudenza evidentemente giustificata, dato che il suo primo proprietario, l’industriale Fritz Wärndorfer, finanziatore delle Wiener Werkstätte, la teneva coperta per evitare scandali. Klimt ci ha abituati a personaggi femminili inquietanti, ad atmosfere morbose, ma in quest’opera spinge in maniera evidente nella direzione di un sovvertimento dei valori positivi tradizionali, attesi dal titolo stesso e dal soggetto. La Speranza viene allegoricamente rappresentata nella figura di una giovane donna incinta, completamente nuda, teoricamente piena di promessa e di futuro, immagine che al contempo allude all’incontro intimo avvenuto dentro e fuori di lei. Incontro d’amore da cui è sorto quel corpo che ora lei contiene nel suo, che la tradizione vorrebbe morbido accogliente, opulento, una poetica esaltazione della carne femminile, soffice terra dell’attesa e del miracolo. Qui non troviamo nulla di tutto questo. La donna è di una magrezza e di un pallore malsani: sotto una massa di capelli rossi, il viso appare ossuto, gli zigomi sporgenti, gli occhi cerchiati, le labbra serrate. Il seno appare leggermente cadente e piccolo, braccia e gambe sono magre, i glutei addirittura scavati. Su tutto emerge un ventre sproporzionatamente prominente, esaltato dalla posizione di profilo, estraneo al resto del corpo. La donna raccoglie le braccia al seno, intreccia le mani in un gesto di protezione e di difesa e non nell’abituale posa delle future madri, che appoggiano le mani sul ventre in un atto di carezza spontanea. La testa è girata, lo sguardo ceruleo puntato sull’osservatore, l’espressione seria, la nudità del pube esposta, se non esibita. Una maternità che non conosce dolcezza, questa, ma che appare pervasa da un vago senso di inquietudine, denunciato dalle irregolarità che si percepiscono nel corpo, nel gesto, nello sguardo. Dietro di lei, sopra al serico ondeggiare di preziose stoffe colorate, aleggiano tre presenze, volti femminili, più o meno deformati, e un teschio all’altezza della nuvola rossa dei capelli della donna: “demoni della vita” per Ludwig Hevesi, oscure minacce alla vita del nascituro, ma non del tutto estranee alla stessa madre, che ambiguamente porta una corona di fiori bianchi, simbolo di purezza, su una chioma fiammeggiante, tipica delle donne-sirene di Klimt. Queste oscure presenze, che richiamano quelle di un dipinto di qualche anno prima, Amore del 1895 (una contaminazione tra il tema della Vanitas e quello delle età dell’uomo, affrontato nel 1905 con la celebre opera Le tre età della vita), potrebbero rappresentare le Parche, in posizione di ieratica attesa prima di iniziare a tessere il filo della vita del nascituro, una vita certo non facile, non di gioia, ma di angoscia e disagio. Ma ad attendere la nascita del bambino è anche un mostro nero, dalla coda di serpente, un “grande divoratore” che prende in un laccio le caviglie della madre, protendendo verso il suo ventre un’orribile zampa artigliata. Sulla testa del mostro una fila di fiorellini bianchi: una metamorfosi, un presagio di trasformazione della donna inconsapevole? In maniera piuttosto curiosa, questa figura sembra anticipare di qualche anno l’archetipo della Grande Madre di Jung (1912): da una parte il polo positivo della femminilità, che riassume in sé fecondità, nutrimento, protezione (madre buona), dall’altra il polo negativo: l’abisso, il segreto, l’oscuro, il mondo dei morti, ciò che seduce, divora, intossica (madre cattiva), simbolo dell’inquietudine e delle ombre dell’inconscio. Il teschio sospeso sulla testa della donna, con la sua stessa inclinazione, suggerisce un parallelismo inquietante, che non può essere casuale. Ludwig Hevesi, che conosceva da vicino Klimt e le sue idee, parla di “dipinto simbolico, moderna versione del motivo trattato da Albrecht Dürer in Il cavaliere, la morte e il diavolo, fra le opere più celebri e conosciute del Cinquecento tedesco, dove, seguendo un’idea di Erasmo da Rotterdam, Dürer rappresentò un monumentale cavaliere cristiano che procede ignorando la morte (con la clessidra in mano) e il diavolo che si avvicina da dietro tenendo in mano una picca. In ogni caso, concepita all’interno della Secessione Viennese in un clima di emancipazione generale, l’opera di Klimt potrebbe essere letta come un attacco alla mentalità conservatrice e perbenista della società viennese dell’epoca, scandalosa nel tema, angosciosa nella compressione – in un formato verticale – di più figure dai tratti inquietanti. Stilisticamente agli albori della fase “d’oro”, seguita al viaggio a Ravenna del 1903, il dipinto presenta un accento cupo che anticipa i tratti tipici dell’Espressionismo: nella testa deformata da una smorfia in alto a sinistra, un artista giovane e disperato, scoperto dallo stesso Klimt, troverà un motivo di ispirazione che sarà poi la sua cifra stilistica distintiva: Egon Schiele.
Quattro anni dopo, Klimt riprende il tema con Speranza II, accompagnata dal sottotitolo Visione, fecondità, leggenda. Una rivoluzione copernicana, una visione della maternità assolutamente antitetica, in apparenza. La tela è di formato quadrato, tipica degli anni della maturità dell’artista, come tipico è il fondo d’oro puntinato, che annulla la percezione dello spazio fisico reale ponendo la figura in un’ambientazione “cosmica” che verrà utilizzata anche nel celebre Bacio dello stesso periodo. La figura della madre è in posizione centrale, unica protagonista, in un atteggiamento di sospensione: il volto di profilo, lo sguardo abbassato sul ventre, i seni scoperti ma il corpo avvolto da preziosi tessuti arabescati, un mosaico composto di tasselli preziosi che denunciano l’incontro con gli ori e le paste vitree dei mosaici ravennati. La mano destra è leggermente sollevata, quasi a scandire con gesto misurato le parole di un dialogo silenzioso fra madre e figlio. L’oro dello sfondo, la cromia accesa, l’atteggiamento dolce e meditativo della madre sono quanto di più lontano possa esserci dalla prima versione di questo tema. Ma quando lo sguardo scende nella parte inferiore del dipinto scopre alcuni elementi che riconducono all’opera del 1903: fra gli arabeschi dell’abito tre figure femminili, in atteggiamento di dolente preghiera, a capo chino, ad occhi chiusi, con le mani alzate a prendersi il volto. E ancora, risalendo sul ventre della madre, ecco che si scopre inopinatamente un teschio sospeso, appena appoggiato, per così dire, ridotto a pura decorazione ma evidentissimo. La figura, costruita in gran parte dall’incastro di tasselli con motivi floreali stilizzati, non perde la sua solidità e soprattutto la sua dimensione psicologica, di meditazione compunta. Una visione della maternità dunque meno disperata, meno inquietante, ma pur sempre pervasa dall’oscura presenza di un destino ineluttabile, di un presagio incombente, di una bellezza malata e struggente in cui le “malinconiche armonie dei colori spenti, cinerei, perlacei” (Argan) si mescolano al vividi bagliori dell’oro, dell’argento, delle gemme, degli smalti. Arte preziosa, pagana, simbolica, quella di Klimt, che incrocia la splendida ed esangue arte bizantina in una stagione ai limiti della fine di un’epoca, dopo la quale saranno le Avanguardie a tracciare il percorso di una nuova civiltà. Esposta nel 1909 alla Kunstschau accanto ad alcune opere di Egon Schiele, Speranza II mostrò agli osservatori il suo apparentamento con le figure femminili di quest’ultimo, brune, pallide e smunte, evidenziando la forza del dialogo fra i due protagonisti indiscussi della Secessione Viennese.
Mio commento:
Splendido questo post, dettagliata e ammirevole esposizione di analisi e sentimenti ideatori. Cura nella ricerca estetica e ideale del periodo. La Wiener Werkstätte si ispirava alle Arts & Crafts inglesi, a Morris a Ruskin. Io custodisco gelosamente diversi numeri di The Studio ed ho quelli del 1909 che si riferiscono alla Kunstschau. Simbolismo, la parola chiave, Simbolismo del ventre prominente che vince la scena e guarda verso la sinistra del confine visivo, guarda al passato…la fonte di ispirazione, l’inconscio, Dante Gabriel Rossetti e i Preraffaelliti…Un onirismo lirico e poetico. L’interpretazione dei Sogni di Freud fu pubblicato in tedesco nel 1899, le ali nere del divoratore, il nero di Klimt potrebbero essere quelle della morte del becchino (anni 1890) di Carlos Schwabe..la poesia di Mallarmè e di Emile Verhaeren. Grazie per l’ispirazione.
E tanto tanto altro.

Orfeo


Preraffaelliti
Le ninfee ritrovano la testa di Orfeo – 1900 -Waterhouse

Rainer Maria Rilke –  I Sonetti a Orfeo – IIParte.3

Specchi, nessuno ha scritto mai, sapendolo,

che cosa siete nell’essenza.

Interstizi del tempo voi, di buchi

pieni come crivelli.

Voi della sala vuota ancora prodighi,

immensi, al farsi buio, come selve…

Cervo ramoso il lampadario vi

traversa, impenetrabili.

A volte di pitture vi stipate.

Alcune paiono in voi trapassare,

altre lasciate fuori, timorosi –

ma la più bella resterà, fin quando

entro il suo viso che si nega invano

penetri il chiaro dissolto Narciso.

La presenza di Orfeo – La terra Santa
Alda Merini (1ed.1953)

“Orfeo novello amico dell’assenza, / modulerai di nuovo dalla cetra / la figura nascente di me stessa.”

« Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai »
(Orfeo ne L’inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947)
G.Moreau – Ragazza tracia con la testa di Orfeo (1865)
.

Fernand Khnopff – Des Caresses – 1896 –


IL SIMBOLISMO BELGA
Des Caresses – 1896 –
Per capire un opera, oltre alla conoscenza accademica, allo studio applicato,
alla esperienza fisica e visiva delle mostre,
alla ricerca meticolosa in archivi dimenticati, oltre questo approccio oggettivo utile alla conoscenza, per me è indispensabile saper vedere, guardare oltre ciò che viene rappresentato.
Utilizzare la sensibilità, il linguaggio delle emozioni, che mi contraddistingue come individuo; chiedermi cosa voglio vedere nell’opera d’arte,
che mi appartiene, di intimamente mio, oltre a quella magia estetica che mi rapisce, senza la necessità di adottare logica alcuna.
Non posso fare a meno di collocare temporalmente ciò che vedo,
 il tempo, il concetto circolare, la dimensione cronologica di tutti i fatti che avvolgono un artista e la sua arte, sono elementi imprescindibili per lo studio.
Ed ecco che, come per incanto, un piccolo dettaglio nascosto, sfuocato e apparentemente insignificante, si trasforma nell’elemento chiave,
nella parola magica del mondo incantato che apre le porte del linguaggio nascosto del quadro e dei suoi segreti…nonché dei miei.
“Ritratto di Marguerite Khnopff”
Collezione Personale
A Brussel, una mostra sul simbolismo belga e il suo grande artista Khnopff, autore della figura che ho scelto rappresentare la mia immagine e il mio nome: kolonistuga.
Museo e città che ho avuto il piacere di visitare l’anno passato,
dopo 17 anni di attesa.
Brussel custodisce alcune chiavi importanti per la mia evoluzione artistica,
architettonica e letteraria, per la mia persona.
Khnopff, fu corrispondente per la rivista delle Arts & Crafts “The Studio”, di cui gelosamente custodisco diverse copie di cui una interamente dedicata a lui , con stampe di bozzetti e altre opere, alcune mai compiute. (1893-99) Quella a me particolarmente cara è questa immagine di studio di viso femminile, che ritrae la sorella, che lui amava profondamente e morbosamente. Dalla studio del suo viso, usciranno le linee guida di tutti i tratti e relative re-interpretazioni di visi e figure femminili, delle sue sublimi opere simboliche ed evocative. Oggi su Repubblica ( 1 Maggio 2010), Cesare De Seta, scrive un illuminante articolo su questa mostra e il simbolismo Belga, che invito tutti a leggere e di cui copio alcuni frammenti:
“Bruxelles, l’arte ossessionata dal peccato tra ermafroditi e donne tentatrici”
“.. :al primo colpo salta all’occhio che la donna, incarnazione dell’angelo e del demone, è una protagonista assoluta di questa cultura. (il Simbolismo n.d.r)
Una donna puttana, una donna tentatrice, una donna adescatrice, esibita nel corpo,
nella sua nudità,
in veste e fogge scandalosamente provocanti.
Figure ermafrodite che hanno il loro duraturo trionfo nell’elegantissimo Des Caresses, 1896,
dove un giovane con un torso da scultura prassitelica sfiora il volto ermafrodita di una fanciulla che ha il corpo di un ghepardo:
Fernand Knhopff, ha un segno inconfondibile alla Franz Stuck, ma esibendo il felino chiude la partita con la tradizione dell’esotismo orientalista.
Il realismo del dipinto è solo una foggia esterna, quel che conta sono i significati che il soggetto trasmette:

negli stessi anni gli scambi tra la poesia di Mallarmé e i romanzi del belga Paledan sono assai stretti, stroncati a Parigi, hanno un gran successo in Belgio. …”

A seguire alcuni link utili:

http://www.riflessioni.it/enciclopedia/simbolismo.htm

http://www.artivisive.sns.it/fototeca/scheda.php?id=11029#

Pali Cosmogonici – MITI – Eliade


Miti e Riti di ORIENTAMENTO – Abitazione, IMAGO MUNDI (Mircea Eliade)
E’ difficile, per noi moderni, apprezzare l’enorme importanza che assumeva per il “primitivo”, l’orientamento nello spazio. L’orientamento, vale a dire, in ultima istanza, la divisione dello spazio in quattro orizzonti, equivaleva a una fondazione del mondo. L’Omogeneità dello spazio conosciuto, era in un certo senso assimilata al Caos. Il conseguimento di un “centro” attraverso l’incrociarsi di due linee diritte e la proiezione dei quattro orizzonti nelle quattro direzioni cardinali, rappresentava una vera e propria . Il cerchio o il quadrato, costruito a partire da un Centro è un Imago Mundi. Nel centro si erge il Palo, che rappresenta l’Asse Cosmico, poichè è intorno ad esso che il territorio diventa abitabile, dunque si trasforma in un .
In tutte le società tradizionali, cosmizzare uno spazio equivale a consacrarlo, poichè il cosmo essendo opera divina è sacro nella sua stessa struttura. Vivere in un cosmo significa, prima di tutto, vivere in uno spazio santificato, che offre la possibilità di comunicare con gli Dei. La cosmizzazione, dunque la consacrazione, dello spazio con una tecnica qualsiasi di orientamento rituale, si ripete anche in occasione della costruzione di una casa. La cosmizzazione si lascia percepire nella struttura stessa della dimora. Presso un gran numero di popoli arcaici, e particolarmente presso i cacciatori e i pastori semi-nomadi, l’abitazione comporta un simbolismo che la trasforma in imago mundi.
Presso i nomadi, il paletto che sostiene la tenda è assimilato all’Asse cosmico; presso i sedentari, questo ruolo è assunto dal pilastro centrale o dal buco di evacuazione del fumo.
Abbiamo qui a che fare con il simbolismo del ; come il territorio occupato, la città o il villaggio riproducono l’Universo, anche la casa diventa una imago mundi grazie all’orientamento rituale e al simbololismo del Centro.
Vorremmo mostrare adesso, come, in certe culture, la costruzione delle case è strutturalmente solidale con il mito cosmogonico.
Ecco come si procede in India: prima di posare la prima pietra, l’astrologo indica il punto delle fondamenta che si trova al di sopra del Serpente che sostiene il Mondo. Il capomastro taglia un palo e lo conficca nel terreno esattamente nel punto designato, per fissare bene la testa del Serpente. Una pietra di base è posata in seguito al di sopra del palo. La pietra si trova così esattamente al centro.
Questo è il rito grazie al quale ogni casa indiana è simbolicamente situata al centro stesso dell’Universo.
Questo rito, tuttavia non è che la ritualizzazione del mito cosmogonico. In effetti, conficcare il palo nella testa del Serpente e “fissarlo”, significa imitare il gesto primordiale di Soma o di Indra, quando quest’ultimo, come si esprime il Rg-Veda (I,52,10). Il Serpente è Vrtra; simbolizza il Caos, l’amorfo, il non manifesto. Decapitarlo equivale a un atto di creazione, al passaggio dal virtuale a dell’amorfo all’attuale e al formale.
Con questo esempio indiano, abbiamo evidentemente a che fare con un nuovo tema. La cosmogonia simbolicamente ripetuta con il rituale di costruzione comporta la messa a morte di un Mostro primordiale, il Serpente Vrtra. In altre parole, la creazione si produce attraverso un sacrificio sanguinoso: un Essere vivente deve essere immolato se si vuole che un opera prenda forma e duri. Questo nuovo motivo mitico contiene nella sua stessa struttura un elemento tragico: la Creazione non si effettua più con la potenza del pensiero e della parola divina, come era il caso nel mito polinesiano e in numerosi altri miti: la Creazione si realizza con l’immolazione di una vittima. Questo nuovo tema mitico ha avuto enormi conseguenze per la storia dello spirito umano. Attraverso questo mito, l’uomo ha preso coscienza del fatto che ogni creazione, per essere valida e per durare, deve derivare da un sacrificio.

https://youtu.be/S6W9se3oKJ0

M.Eliade “Struttura e Funzione” dei Miti, in M.Eliade “Spezzare il tetto della casa” Milano 1988 pp. 59-81